Sembra che il giamaicano non possa perdere tra queste mura, nel luogo che sette anni fa lo consacrò mito sportivo dell’era moderna, e che oggi, a sette anni di distanza, torna a salutarlo campione del mondo. Bolt, ancora lui. Vince la gara delle gare di questo mondiale in 9.79 (-0.5), un centesimo meno di Justin Gatlin, il cui 9.77 delle semifinali (miglior crono di ammissione alla
finale) ha probabilmente contribuito a determinare, ma solo per somma di ansie, il risultato conclusivo. Doppio bronzo a seguire, assegnato ex-aequo, con 9.92, allo statunitense Trayvon Bromell e al canadese Andre De Grasse (terza medaglia di giornata per i nordamericani). Le ansie di Gatlin, dunque, la paura di vincere, sommata a quella di perdere; la prima che dura 80 metri, la seconda che subentra e manda tutto all’aria, nei metri finali. E’ lì, la chiave di lettura di questa finale, avvincente più per l’attesa creata che per valori tecnici espressi. Gatlin che scappa, e accumula vantaggio; Bolt che costruisce la gara aspettando la fase lanciata, il momento più favorevole alle sue lunghe leve; Gatlin che percepisce la rimonta dell’avversario, e cerca un traguardo che in realtà è ancora lontano. Troppo, per cominciare a proiettare il petto in avanti. Bolt che ce la fa. L’eroe che si conferma (terzo titolo, non consecutivo, dopo quelli di Berlino e Mosca), e che fa scattare la festa. Niente lampo, per celebrare, o almeno, non prima di alcuni minuti, perché questo Bolt è diverso da quello olimpico del 2008, e sembra voler prendere le distanze anche dalla sua immagine, per tornare a scintillare. Arrivederci a Rio de Janeiro, tra un anno, per quella che sarà probabilmente l’ultima puntata, oltre che la rivincita.
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