Ai Campionati mondiali di atletica di Tokyo, dove ogni gesto è misurato al millesimo e ogni parola calibrata al centesimo, anche una fascia può diventare un caso. Jeremiah Azu, 24 anni, velocista britannico e figlio di un pastore pentecostale, ha osato indossare una fascia bianca con la scritta “100% Jesus” durante la semifinale dei 100 metri. Un gesto di fede? Certamente. Un’infrazione? Secondo World Athletics, sì.
Il quarto posto ottenuto da Azu non gli ha garantito l’accesso alla finale, ma è bastato a garantirgli un ammonimento ufficiale. La Federazione internazionale ha prontamente “ricordato” al team britannico che slogan religiosi, politici o personali non sono ammessi in gara. Un promemoria che suona più come una reprimenda preventiva, dato che Azu è atteso nella staffetta 4x100 metri di sabato.
Fede sotto osservazione
Azu non ha mai nascosto la sua devozione. “Quando sono sulla linea di partenza, sento che non lo sto facendo solo per me, ma che c’è una forza superiore dietro di me”, ha dichiarato. Parole che, in un mondo sportivo sempre più attento a ogni sfumatura di comunicazione, sembrano disturbare più del previsto. La sua fascia, semplice e inequivocabile, ha evocato precedenti illustri: da Neymar ai Giochi di Rio, fino alle polemiche con il CIO.
Regolamenti o censura?
World Athletics si è affrettata a ribadire la propria posizione: “Nessun tipo di slogan personale, politico o religioso è consentito”. Una regola che, nella sua apparente neutralità, finisce per colpire proprio chi cerca di esprimere qualcosa di più profondo di un tempo cronometrico. La domanda sorge spontanea: è davvero possibile separare l’atleta dalla sua identità?
Un gesto che fa pensare
In un’epoca in cui si celebra l’autenticità e si predica l’inclusione, l’avvertimento ad Azu suona come un ritorno a una forma di conformismo istituzionale. La pista, luogo di sfide e di sogni, sembra non tollerare più le dichiarazioni che non siano strettamente tecniche. Eppure, proprio da lì, spesso nascono le storie che restano.
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